Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (2024)

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (1)

14 Giu 2024

Suggestioni di Vino

Non parlo sloveno. Sono italiana. Anche se ora dalla finestra vedo le case della Slovenia.

Italia. Slovenia. Confine. Terre di confine. Popoli che si uniscono o si dividono. Confini fisici che non sono quelli delle persone. Non esistono se non sulle carte geografiche, nelle competenze degli enti locali, degli stati sovrani. Mentre le persone, attraversano e attraversavano il confine nazionale senza curarsi della diversa nazionalità o etnia. Come se la nazionalità poi fosse un muro divisorio di culture: io di qui, tu di li. Diversi. Ma perché?
Solo una guerra può costringere le persone a restare da una delle due parti. Magari a combattere l’amico aldilà di quello stupido, imposto, confine. Magari invece a resistere. Insieme.

Un uomo nato in Italia da madre italiana e da padre ignoto che cos’è?
Aspetti un momento mi lasci riflettere…nato in Italia..madre italiana…padre ignoto..è italiano!
Arrivederci
È sicuro che è italiano?
Sicuro
Ma se alla nascita è stato dichiarato al municipio francese, che cos’è?
Questo è un pochino più difficile. Nato in Italia…madre italiana…padre ignoto…ma dichiarato al municipio francese…è francese
È francese! Hai visto?

La legge è legge, è un film del 1958 con gli indimenticabili Totò e Fernandel. Nel paesino immaginario di Assola, con la via principale a fare da confine tra Italia e Francia, i due nemici amici danno vita ad una spassosissima storia all’insegna proprio del rapporto tra persone di confine. Una guardia, l’altro ladro. Pur sempre persone. Che si conoscono da una vita. Indipendentemente dalla nazionalità.
Francia, Slovenia, Austria, Svizzera. Che cambia? Quando c’è un confine, tutto si miscela. Tutto diventa più sfumato. Filo spinato. Fiumi. Muri. Tutto si supera.

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (2)Il confine con la Slovenia vuol dire Collio. Un meraviglioso territorio melting pot di due popoli in grado di produrre fantastici vini colmi di mineralità, eleganza, finezza, profumi e freschezza. Identità.
Un territorio incastonato tra le alpi e il mare, conteso da chi passava di li. La Grande Guerra a fare da spartiacque temporale: l’Austria prima, l’Italia dopo. I tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale, le milizie di Tito e la nascente Jugoslavia poi. Repubblica Slovena e Italia alla fine. In pace. Così come la pace che regna in queste zone. Anche se per alcuni essere italiani, non sloveni o sloveni, non italiani è un vanto. Un orgoglio.

Alessio Komjanc oggi ha superato gli ottanta anni. È lui la seconda delle tre generazioni della famiglia che produce vino. Famiglia. Družina.La famiglia che c’è e ci sarà. Qui a Giasbana, piccola frazione di San Floriano del Collio, a pochi metri dal confine con la Slovenia, l’azienda Alessio Komjanc e figli è davvero una azienda di famiglia. Di quelle che fanno tutto da loro. Che si sono strutturati per fare le cose da se. In famiglia.

Siamo una famiglia da sempre e vogliamo rimanere tali. Siamo qui da inizio 800 e siamo da sempre viti viticoltori.

Fino agli anni 70 questa era una azienda promiscua. Così erano le realtà e non solo nel Collio. Nessuno produceva vino per venderlo. Almeno in Italia dove le campagne si spopolavano.
Neanche lo si imbottigliava. Damigiane o sfuso. Per riempire le damigiane.

Mio suocero negli anni 70, dopo aver lavorato con il padre e ricevuto da questo qualche appezzamento, decise di mettersi in proprio partendo con la viticoltura. Impianta i primi vigneti con l’idea di una azienda di sola viticoltura. Costruisce poi la cantina e ai primi anni 80 inserisce la linea di imbottigliamento per completare tutta la filiera. La prima bottiglia che abbiamo trovato è del 1973.

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (3)La lungimiranza di una persona semplice che ha alle spalle l’esperienza della famiglia ma non gli studi. Studiare era per pochi e se abiti in una terra di confine, ancora per meno.
Alle viti aggiunge, negli anni 80, gli ulivi abbandonati nel Collio dopo il 1929.
Fino a quella data qui c’erano frutteti, vigneti ed oliveti. Il 1929 segna per l’Europa una delle ondate di freddo, intensa e inaspettata, più severe del secolo scorso (forse anche di quello attuale). Si ripeté in maniera simile solo nel 1956 e nel 1985. Arrivarono 30 cm di neve a Roma, 20 a Napoli, 70 a Bari. Figuriamoci qui nel Collio, porta di accesso all’Europa continentale e balcanica. Le coltivazioni furono devastate aggiungendo così alla macerie della guerra e della successiva crisi economica, solo altra povertà. Le persone erano già scappate per via della guerra e le gelate diedero la mazzata finale a chi rimase. Solo nel 1970 i monaci dell’Abbazia di Rosazzo provarono a reimpiantare qualche pianta di olivo per capirne la resistenza. Con la speranza, magari accompagnata da qualche preghiera, di non rivedere più quel freddo

Mio suocero ha sei figli. Provò ad impiantare gli olivi dicendo “al limite faccio l’olio per la famiglia”. Adesso ci sono circa 2000 piante.

24 ettari a vite, 52 ettari ad olivo, 2 ettari a bosco. Una azienda, quella di Alessio, cresciuta nell’ottica della sostenibilità.

Abbiamo avuto da sempre i vigneti inerbiti ed il bosco. Va di modo la sostenibilità, la biodiversità. Ma qui non hanno mai estirpato nulla. Mai tagliato i boschi per coltivare la vite. Non hanno impiantato selvaggiamente. Ci sono molti cacciatori anche in famiglia e ci tengono. Tutto serve a mantenere un certo equilibrio.

Un legame con la terra. Un legame con le persone. Un legame all’interno della famiglia. Tutto per la famiglia.
Qui ogni legame è forte e duraturo. Si lavora e si lavora tanto. Senza mai tirarsi indietro. Perché solo così, con il lavoro, si cementano i rapporti all’interno della famiglia.
La famiglia.
Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (4)Alessio è una di quelle persone che ha lavorato tanto desiderando tanto. Non per se. Per la famiglia. Numerosa. Come erano le famiglie di un tempo nelle quali servivano braccia forti per mandare avanti l’azienda. Sei figli. Quattro maschi: Beniamin, Roberto, Patrik, Ivan che nel 2004 si cementano per mandare avanti l’azienda di famiglia.
La famiglia.
L’intelligenza e la lungimiranza hanno posto le basi per una ripartizione di compiti. Difficile pensare di mandare avanti l’azienda con tutti a fare tutto. Evitare i contrasti attraverso specifici ruoli e rispetto reciproco. È cosi che Beniamin, Patrik e Ivan si dedicano alla terra aiutando papà Alessio; Roberto in cantina e la parte commerciale.

Quattro figli a casa possono rappresentare una difficoltà. Nati qui in questa azienda, che è casa. Ci si sente a casa con la voglia e la libertà di dire tutto ciò che si vuole. L’intelligenza del dividere i compiti. La sensibilità e l’ulteriore grande prova di intelligenza, di tutti, nel rispettarli.

Le decisioni importanti si prendono insieme ma poi ognuno nel proprio ambito

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (5)È qui che entra in gioco Raffaella, la moglie di Roberto. È con lei che parlo. È lei che mi guida. Una donna venuta dal Friuli e che incontra l’amore, Roberto, a Milano. Entrambi studiano all’università. Roberto agronomia, Raffaella lingue. L’amore e il sogno di fare qualcosa insieme si legano alla difficoltà di due facoltà che poco hanno da spartire.

Io vengo da studi linguistici a Milano e lavoravo con le lingue. Poi ci siamo sposati. Da studenti l’idea era di lavorare insieme. Lui faceva agraria, io lingue e ci sembrava un pò difficile. La fortuna era che lui aveva l’azienda a casa e ci siamo buttati.

Buttati. Altro che buttati. È un salto quantico. Una sfida che ha in se due forze incredibili. La prima è ovviamente l’amore tra Roberto e Raffaella. La seconda è lo spirito di Raffaella che la porta a compenetrarsi così tanto nell’azienda e nella famiglia Komjanc che diventa parte di essa.

Alessio aveva lasciato un pò andare la parte commerciale. Un figlio solo che lavorava in azienda ma in campagna. Erano gli anni 90, quelli nei quali molti nascevano molte aziende per via della fine della mezzadria. Alessio si è sentito in difficoltà. Roberto è intervenuto dicendo che l’azienda era seduta sull’oro del Collio e occorreva sfruttarlo. Abbiamo rinunciato entrambi a qualcosa.

La donna con la quale parlo è una della famiglia. Lei non parla con il benché minimo distacco. Vive l’azienda e la famiglia come se ci fosse nata. Non ci sono tentennamenti. Non c’è nulla che possa far apparire, neanche minimamente, una incertezza.

Mancano due sorelle che non lavorano in azienda. C’è anche qualche cognata che occasionalmente è in azienda. Siamo cinque famiglie che lavorano in questa azienda. Ci teniamo a rimanere azienda familiare perché per noi è un valore. Per quanto si voglia mantenere una certa filosofia, con altri dipendenti si perde quello spirito.

I vini sono un omaggio ai vitigni autoctoni. Ci sono, come è tradizione in queste zone, tutti i bianchi consentiti dal disciplinare della DOC mentre per il rosso lo Schioppettino, autoctono ma non nella DOC. Dunque IGT. Poi il Pinot Nero, presente già negli anni 70.

Nei documenti del Collio di inizio 900 il Pinot Nero era presente. Dunque è stato mantenuto. Noi siamo imparentati con l’Alto Adige e quella cultura.

In effetti, i conti di Gorizia annetterono alla Contea, nella metà del XIII secolo, il Tirolo creando legami solidi anche con il vino e i vitigni. Legami solidi che si aggiunsero alla mescolanza del confine.

Il Pinot Nero è stato impiantato negli anni 70. Le vigne sono esposte a nord ovest nella parte bassa della collina ai margini di un bosco. Una zona molto fresca che bene si addice al vitigno.

Diciotto sono le tipologie di vino. Tanti? Forse si, forse no.

Alessio, mio suocero desidera sempre avere tanto. Tanti ettari, tanti figli, tanti vitigni. Dunque tanti vini. Lui nasce nell’epoca dove ha fatto anche la fame. La sua mentalità era anche produrre tanto ma noi siamo riusciti a ridurre drasticamente la produzione per ettaro. Con la consulenza enologica che abbiamo, vengono bene dunque, perché dismetterli?

Diciotto tipologie di vino rappresentano a pieno la capacità espressiva del territorio. La mescolanza porta frutti meravigliosi come a dire che le differenze, arricchiscono. Specialmente in una terra, il Collio, in grado di far esprimere al meglio anche varietà differenti. Con tutte le difficoltà del caso.

Una difficolta e una fatica. Iniziamo la vendemmia, negli ultimi anni ad agosto, con Sauvignon, Pinot Grigio e Pinot Nero, la finiamo con lo Schioppettino, 45 giorni dopo. Se aggiungiamo pure il Picolit, che facciamo passito, un anno lo abbiamo pressato alla vigilia di Natale. Una fatica!

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (6)In ognuno dei vini di Alessio Komjanc e figli c’è eleganza e tipicità. Tipicità nel lavorare vitigni autoctoni rispettando ciò che il Collio riesce ad esprimere. Rispettando la natura. Senza eccessi e con intelligenza. Rispettando la famiglia.

Roberto, che si occupa anche del campionamento, quando assaggia l’uva nel momento migliore, dice: da sempre io voglio ritrovare nel bicchiere quello che sento nell’acino quando è matura. In cantina occorre rispettare questo. Siamo in agricoltura integrata dettata da una scelta oculata. Attaccati al territorio, siamo i primi consumatori e non vogliamo porcherie. La zona è abbastanza piovosa e grazie alla escursione termica, l’aromaticità è una componente essenziale. Fare biologico vorrebbe dire eseguire dei trattamenti con rame che potrebbero abbassare l’aromaticità dell’uva nei vini. Vogliamo mantenere vini nei quali si esprimano bene gli aromi primari. Siamo dunque una via di mezzo come agricoltura. Noi facevamo già quello che prevedeva il disciplinare dell’agricoltura integrata. Ci siamo accorti che non ci discostavamo. Il biologico ci limita.

Proprio da parole come questo si capisce come Raffaella sia compenetrata nell’azienda. Sembra appartenere alla famiglia e alla storia. Parla dei familiari con rispetto passione ed amore così che la storia è anche sua.

Avremmo voluto fare il Pignolo. Non l’abbiamo fatto perché ci spaventava. Tutti ci hanno sconsigliato. Dicevano che era da diventate matti. Ci attrae però. Anche il Pinot Nero ci sta facendo impazzire perché non tutti gli anni si raggiungono gli obiettivi che ci siamo posti.

L’enologo è Gianni Menotti. Figlio di questo territorio dove conserva la anima. Da qui e per qui ha inanellato per le sue creazioni premi su premi.

È una consulenza esterna. Lui nasce agronomo dunque ci fa supporto anche nelle vigne. Con lui abbiamo fatto un salto davvero.

80.000 bottiglie. 18 vini. 9 vitigni a bacca bianca. 4 a bacca rossa. Un immenso patrimonio di culture riunito nelle nuove etichette studiate, anzi, lasciate studiare per loro.

I vini
Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (7)Partiamo dal Pinot Nero Dedica. Il più internazionale e il più locale al tempo stesso. Qui assume colore e sentori finissimi anche grazie ai due anni di affinamento in tonneaux. Piccoli frutti rossi ancora non matura che si uniscono ad arancia e prugna per poi lasciare spazio al sottobosco erbaceo, ai fiori di peonia e rosa. Il balsamico ci ricorda a pieno dove siamo preparandoci a percepire le note speziate di pepe che pungono il naso. Poi nasce moscata e cannella per un bouquet di rara finezza.
Il sorso è caldo, fresco, secco con buona mineralità. I tannini maturi non aggrediscono anzi, contribuiscono a sottolineare la sensazione di finezza. Bilanciamento ottimo e persistenza non particolarmente lunga con una frutta che rimane a far compagnia senza essere invadente. Elegante!

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (8)Bratje in lingua slovena significa fratelli. Roberto, Ivan, Beniamin, Patrik sono i fratelli Komjanc. Chardonnay, Riesling Italico, Friuliano, Pinot Bianco i vitigni che compongono Bratje. La sequenza non è a caso: ogni vitigno rispecchia la personalità di ognuno e la loro fusione in acciaio, con il solo Pinot Bianco che che affina in tonneaux per 12 mesi, da vita ad un vino interessantissimo.
Un vino che è un vero abbraccio tra fratelli: caldo e caldo (ovvero ad almeno 10°) va bevuto così che i sentori possano arrivano nella loro completezza alleviando tutte le spigolature.
Il naso è di pera, frutti tropicale, agrumi, vaniglia e cera d’api. Morbidezza di velluto che solo una scorsa di limone candito prova a scalfire con un pizzico di brio. La sensazione è di sentori dolci accarezzati da una fresca brezza.
In bocca è fresco e secco ma soprattutto caldo, morbido e con una grandissima mineralità. La sensazione di morbidezza lascia il campo ad una astringenza che deve essere compensata con un qualcosa di succulento. Con lo scaldarsi la persistenza aumenta e la bocca rimane pulitissma con le note di frutta che diventano spezie. Torna l’agrume del naso che abbraccia morbidamente la bocca. Un vino complesso, particolare e identitario dell’azienda. Verticale ma solo quando la morbidezza lo consente. Ho ritrovato dentro il Collio e, soprattutto, il confine tra morbidezza e durezza che fondendosi aiutano a far capire quanto in famiglia i confini, non esistano.

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (9)Chardonnay Dedica 2021. Non un semplice Chardonnay ma un elegante bouquet di fiori e frutta che spiazza e meraviglia. Fine, complesso, unico anche grazie ad un passaggio a metà fermentazione e per 12 mesi in tonneaux.
Al naso mi ha spiazzato. L’etichetta recita Chardonnay, il naso dice altro per via degli agrumi che si miscelano alla pera, alla pesca di mio padre messa nel vino, alla banana e, soprattutto, a salvia e mentuccia. Poi arrivano i fiori freschi che danno una ventata di campo fiorito: lavanda, margherite e fiori di camomilla che arrivano ad essere miele al limone. Difficile voler togliere il naso dal calice.
Il sorso è secco e morbido. Perfettamente in linea con lo stile della Komjanc. Grande avvoglenza e un finale di bocca molto ma molto convincente. La mineralità anche qui è presente in maniera evidente. La bocca si bea di una ampiezza iniziale che si trasforma poi in verticalità spinta con la mineralità che continua legandosi ad una sensazione di calore non eccessiva ma vivace (nonostante i suoi 15°). La temperatura di servizio non può essere superiore agli 8° altrimenti l’alcol si sentirebbe troppo.
Insomma, le sensazioni che questo vino fornisce sono indubbiamente eleganti e fine. Mi è piaciuto per la sua “vivibilità” e per essere uno Chardonnay atipico ma nobilitato. Non si può non finire la bottiglia.

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (10)Malvasia IGT. Identitaria, pulita, memorabile. Mi è piaciuta e molto già al naso per le note olfattive semplici ma pulite. La pesca bianca, la pera, l’arancia (quella arancione con la buccia sottile), i fiori di camomilla e le margherite di campo. Niente è banale. Niente è complesso. Ma tutto preciso, puntuale, identitario.
Altrettanto il sorso niente affatto banale. Deciso e fine senza essere grandemente aromatico come magari ci si aspetterebbe da una Malvasia. Niente di opulento o sovrastrutturato. Bella freschezza, bella pulizia di bocca, bella sapidità. Il calore? Non si sente ma è traditore.I suoi 14° sono celati, nascosti dietro una superba morbidezza mai stucchevole, dietro una ampiezza di bocca ammirevole, dietro un suo essere buono ma buono. Proprio questo abilita a berne e berne ancora così che poi, gioco forza, i gradi si sentono tutti. La persistenza con il calore si allunga ma attenzione alla temperatura di servizio ovvero a non farlo scaldare troppo perché potrebbe dare un finale verso l’amaricante. Ma non credo si corra questo rischio!

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (11)Sauvignon 2022. I frutti qui la fanno da padrone. Pera, mela, melone, pesca a pasta bianca, ananas, mango, albicocca. Poi agrumi. Frutti vivi e polposi che inebriano e conquistano. I fiori di biancospino e le note balsamiche donano freschezza consentendo al naso di percepire meglio i sentori. Insomma, sentori molto ma molto piacevoli grazie ad una altalenanza di freschezze e morbidezze. Mai stucchevoli. Piacevolmente estivi.
In bocca la prima sensazione è quella dell’agrume misto alla pesca. Che piacevolezza! Fresco, secco, estremamente sapido da subito e un calore che non parte immediatamente ma è progressivo. In fondo, sempre 14° ha questo Sauvignon. Ottimo equilibrio e una bocca che chiude piacevolmente. Un vino estremamente verticale che si lascia bere soprattutto per una non stucchevolezza. Lascia in bocca la giusta secchezza che merita di essere accompagnata con una pasta al pesce o con vongole ad esempio. Di grande carattere insomma. Di seria identità.

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (12)Pinot Grigio 2022. Già il colore paglierino al limite del dorato lo differenzia dagli altri. Mantiene però il carattere dei Komjanc: riservato, semplice, non banale.
Non ci sono grandi sentori ma quelli che trovo, rinfrancati da una evidente, continua, sempre presente, mineralità, sono vivi. Puliti Semplici. Rigeneranti. Anche per via del balsamico che comunque mi ha accompagnato in questa degustazione. Roteando il calice però scopro inaspettatamente anche degli aghi di pino.
Fresco al naso con una pungente dovuta alla mineralità. La frutta è a pasta bianca non matura e i fiori sono, manco a dirlo, bianchi. Semplice ed efficace.
Ci si sarebbe aspettato un sorso semplice. Invece è proprio qui che arriva la meraviglia. Altra caratteristica dei Komjanc: pragmaticità. Estrema mineralità anche in bocca che si trasforma In sapidità. Secco e fresco dunque con un calore che si percepisce in maniera evidente. Mi viene da dire che stavolta i Komjanc non si sono risparmiati. Anche questo vino fa 14°. C’è sostanza! Il marchio di famiglia continua ad esserci: partenza morbida, poi secchezza, infine sapidità. Grande forza in questo Pinot. Lunga persistenza. Ampia avvolgente ed equilibrio raggiunto. Un vino che va abbinato per poterlo gustare al meglio. Ma basta un bel formaggio non stagionato per farlo esaltare. Non smetterei di berlo perché intriga ad ogni sorso anche grazie ad un finale piacevolmente vegetale.

Abbiamo trovato un bravo grafico per un progetto importante sul quale abbiamo investito. Volevamo una etichetta che ci rappresentasse, che parlasse del Collio e della famiglia. Il grafico dopo aver assaggiato il vino e a parlare con noi ha colto le nostre anime e ci ha prodotto le nuove etichette. Nel 1988 una commissione austriaca venne qui per cercare una selezione di vini per il quarantesimo di Francesco Giuseppe. L’unico vino ritenuto “buono e perfetto” fu quello di Florian Komjanc. In etichetta abbiamo proprio messa questa notizia.

Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (13)La necessità e la voglia di continuare come famiglia. Anzi, cinque famiglie. 14 nipoti 9 dei quali figli dei fratelli impegnati in azienda. 20 persone di famiglia impegnati in azienda. Nessuna voglia di pensare ad un futuro diverso da questo status. Famiglia è oggi, famiglia sarà domani. C’è posto per tutti a casa Komjanc. Chi vuole può rimanere e dare una mano. Chi ambisce ad una esperienza esterna ha l’incondizionato supporto della famiglia pronta a raccogliere senza chiedere nulla in cambio.
Questa è famiglia. Famiglia o Družina, poco importa.

Ivan Vellucci

ivan.vellucci@winetalesmagazine.com

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07 Giu 2024

Molino, Bergadano. Famiglie unite del Barolo

Possedere una terra è sempre stata una grande fortuna. Almeno per coloro che della terra e dalla terra ne ricavano i frutti così da viverci. Anche un piccolo pezzo di terra poteva essere di ausilio alla sopravvivenza. Piccolo o grande che fosse, prima o poi arrivava, inesorabile, il momento della successione. Solo che dividere tra i figli significava ridurre, di fatto, la superficie della terra. Riduzione che continuava ad ogni cambio di generazione.Per ovviare a questo, il pater familas oltre a escludere a priori le figlie femmine dalla successione, trasmetteva il patrimonio terriero al solo primogenito. Con l’onere di assumere il ruolo di capo famiglia offrendo lavoro ed ospitalità anche agli altri componenti della famiglia. Primogenitura. Una pratica adottata sin da tempo degli antichi ebrei e per fortuna scomparsa ai giorni d’oggi (forse).In questo contesto, i matrimoni di convenienza, ovvero con la scelta della consorte tenendo conto del patrimonio posseduto dalla famiglia, diventavano un metodo per incrementare la dotazione “familiare” delle terre.Quando si parla di vini e non solo di vigne però, le cose cambiano. O meglio, cambiano se si è intelligenti e lungimiranti. Quando una famiglia produce vino e vino pregiato, in una zona altamente vocata a questo tipo di produzione, una divisione o una unione andrebbe sempre fatta con intelligenza e lungimiranza.Tutto può sembrare facile in un territorio meraviglioso e unico come quello delle Langhe, in Piemonte. Avere per le mani un vino come il Barolo e ricavarlo da vigne situate in territori identitari, è una di quelle fortune che non si può e non si deve in nessun modo gettare al vento. Ma sempre intelligenza e lungimiranza ci vuole e non è che questa si trovi sotto i sassi.Bergadano e Molino sono due famiglie che producono Barolo dall’inizio della storia di quest’ultimo. Piercarlo (Bergadano) e Silvana (Molino) si uniscono in matrimonio e fin qui nulla di strano, se non fosse che decidono che la loro unione non include i marchi, i vini, le vigne, le lavorazioni di cantina. Va bene l’amore, va bene la famiglia ma non certo la propria storia.La nostra storia parte da cinque generazioni fa. Io sarei la quinta.Michele Bergadano con la sorella Francesca rappresentano la quinta generazione di vignaioli. Siamo nella culla delle Langhe, a La Morra, in provincia di Cuneo. Qui sorge Cascina Rocca, punto di incontro tra le due famiglie.Il fondatore non è sempre stato nel nostro territorio. Comprava e rivedeva le proprietà nel Piemonte. Nel 1800 acquistò l’attuale cascina con annessa una vigna. Li si decise di cambiare vita insediandosi nel territorio. Bisnonno e nonno lavoravano la terra. Nonno Dante iniziò a vinificare e nel 1965 produsse il primo Barolo.A quel tempo non è che si vendevano le bottiglie come ora. Il Barolo lo si metteva nelle damigiane o si vendeva sfuso. Altri tempi. Altra cultura. Altro modo di vedere le cose. Un mondo dove la genuinità prevaleva su tutta l’infrastruttura di marketing creata successivamente su queste terre. Dire se le cose siano cambiate in meglio o in peggio, è complicato. Di certo oggi è arrivata la ricchezza come, sempre di certo, si è persa la genuinità di molte, non tutte, le persone. Si produce, forse, come una volta. Si vende il vino a prezzi maggiori rispetto ad una volta. Si accolgono le persone con tanta attenzione e professionalità ma non certamente (in molti casi) con lo stile di queste terre.Nonno comprò altre vigne. Poi mamma e papà iniziarono a lavorare con l’export la Germania e l’America. Negli anni l’azienda 80 si è ingrandita puntando sulla qualità. Era il periodo in cui c’era la fuga dalla nostra zona. Chi comprava le vigne era un pazzo. Dagli ani 90 cambiò tutto. Chi investi all’epoca oggi vede i risultatiMichele anche se non ha vissuto quel tempo, sa di cosa si parla. I racconti dei genitori hanno fatto breccia nella sua anima. Le Langhe come le vediamo ora non sono sempre state così. Le stupende colline con i filari a fare da cornice, le cascine sistemate come alberghi di lusso con tanto di spa, i ristoranti con piatti gourmet, le cantine. Tutto questo prima degli anni 90, non c’era. Da qui, come da tutti i luoghi dove l’unica possibilità era fare il contadino, la gente scappava. La città, il lavoro in un ufficio o in fabbrica, le luci, le comodità. Perché mai rimanere in un luogo ameno, freddo e nebbioso?Però, proprio le Langhe, sono la dimostrazione di come si possa valorizzare un territorio facendo sistema, investendo nella riqualificazione e non puntando solo per ad un prodotto. Per generare ricchezza. Per tutti.Non siamo una azienda grande ma abbiamo le vigne nei vari comuni. 11 ettari con 50 mila bottiglie. Barolo e La morra. Poi Villero a Castiglione Falletto.Ah però mi viene da esclamare. Le migliori zone per produrre Nebbiolo.Ciò che serviva però era un punto di incontro tra le due realtà. Da un lato Bergadano, dall’altro Molino. Vigne sparse nelle Langhe. Prodotti diversi. Storie diverse. Ecco che nella lungimiranza e nella intelligenza nasce Cascina Rocca proprio come punto di incontro tra le due famiglie. Ristrutturata nel 1999 per farne qualcosa di valore.Era quasi una stalla. La rifecero da zero preservando le parti essenziali. La cantina per la vinificazione in legno venne conservata. Rocca deriva dalla zona della rocca dove sorge la cantina. Negli ultimi cinque, sei anni mio papà si è occupato più della produzione, mamma delle vendite curando anche l’agriturismo. Non ce la faceva più ad andare in giro peri l mondo. Adesso l’agriturismo è migliorato tanto lasciando da parte la cantina. Io e mia sorella invece ci stiamo occupando più dalle cantina.Un conto è Molino, un conto Bergadano. Non facciamo confusione.Franco Molino è l’azienda portata da mamma Silvana e oggi gestita da Michele e Francesca. Bergadano, due ettari e mezzo con circa 10.000 bottiglie, portata e gestita da papà Piercarlo.Nel 1999, insieme alla Cascina, si sono unite anche le aziende. Lasciando tutto separato per preservare l’identità e lo stile dei singoli vini. Intelligenza e lungimiranza.L’idea non è avere due linee diverse ma due stili, due modi di vedere i vini del territorio. Franco Molino con base La morra e Rocca dell’Annunziata con Villero a Castiglione. Lo stile dei vini resta più floreale e c’è tanta freschezza. Barolo con botte grande. Passaggi non troppo concentrati. Bergadamo nel comune di Monforte e Barolo. Suoli più tenaci. Utilizzo di barrique. Legno, corpo, forza nei vini.Insomma, due prodotti decisamente diversi. Due filosofie diverse che portano Molino ad identificarsi come azienda classica, Bergadamo come una piccola azienda di alto livello capace di produrre veri cru.L’azienda rimane comunque a carattere familiare. Cosa non è di poco conto in una zona dove le grandi aziende si impossessano delle vigne.C’è sempre stata la possibilità di stare in vigna con papà. Una vera fortuna. I miei compagni che non hanno avuto la fortuna di avere una cantina sono un pò indietro. Avere una idea di come funzionasse già il lavoro, la passione. Seguiamo tuto per voglia e no per costrizione. È una passione nata di conseguenza.Michele è stato dietro al papà e al nonno dai quali ha assorbito l’arte della vigna e la passione per questo mestiere. La scuola enologica che frequenta sta aggiungendo le nozioni tecniche necessarie. Non diamo per scontato che un ragazzo e una ragazza vogliano rimanere a fare i vignaioli e a gestire una azienda agricola solo perché siamo nelle Langhe!Sto valutando di fare l’università. Mia sorella è sempre stata più mirata all’aspetto commerciale. Ha fatto il linguistico con delle esperienze all’estero per migliorare le lingue.Michele e Francesca sanno di avere per le mani qualcosa di importante. Con l’onere di non poter e non dover mettere in pericolo l’azienda. La passione, la loro passione, non è qualcosa che si acquisisce per potere divino o per usucapione. Devi averla e devi al contempo coltivarla. Con la fatica e con lo studio. Con la applicazione pratica e con gli errori. Rispettando le tradizioni e ascoltando chi ne sa più di loro.In vigna non c’è un tecnico perché facciamo noi direttamente. Siamo noi 4 della famiglia più qualcuno che ci aiuta in vigna e cantina. Le scelte le facciamo noi. Esperienza e studio. In cantina abbiamo un cantiniere con un consulente esterno che poi è pure un parente. Si chiama Molino. Parenti e vicino di casa. Viene spesso in cantina quando c’è da fare delle scelte. Facciamo tutto a modo.Una famiglia che sta insieme con la voglia di stare insieme uniti. Progetti e sogni per il futuro tanti e ben concreti a significare quanto ci si tenga a rimanere ben ancorati al territorio. Che è in parte anche loro.Mi piacerebbe avere una vigna nel territorio di Serralunga per uno stile di Barolo che mi piace tanto. Faremo una cantina nuova perché la cantina che abbiamo adesso è divisa in tre parti cosa questa che ci obbliga a fare delle scelte sull’invecchiamento o imbottigliamento. Non forziamo alcun passaggio ma alle volte dobbiamo imbottigliare per forza. Sul mercato italiano non abbiamo molto poi. Lavorano tutti con i grandi nomi. Mi piacerebbe avere qualche sbocco.Questo è un punto saliente delle due aziende Bergadano e Franco Molino. Andando sul web o cercando in giro, sembrano due brand che non esistono. Se non in qualche recensione estera. Eppure sono vini fantastici. Espressioni di Barolo, Barbera, Dolcetto, Nebbiolo a dir poco meravigliose. Uve provenienti dai templi delle Langhe e lavorate con metodi giusti. Quando Michele parla dei grandi nomi appare evidente come per un piccolo eccellente produttore sia difficile emergere nonostante la qualità eccelsa dei prodotti.Che mondo strano.I nostri Barolo non sono quelli da 100 punti che fanno tre anni di barrique. Sono Barolo, Nebbiolo e Barbera che rispecchiano le vigne di provenienza. Manteniamo la singola vigna. Lavoriamo su uno stile con l’invecchiamento mirato sulla zona. Il Villero fa un passaggio più strutturato perché non ne risente. Viene influenzato ma non stroncato. Il Nebbiolo fa un passaggio di 12 mesi in legno grande. Due barbera. Superiore e base. Superiore 18 mesi in barrique: ma non sa solo di barrique. Intensità ed equilibrio rispettando molto gli aromi. Mio papà è sempre stato contrario al legno. Ha sempre cercato di farne un uso corretto in tutti i vini tranne il dolcetto. Ha scelto legni e tostature giuste.In effetti tutti vini Franco Molino sembrano vini vecchio stampo. A mio modo di vedere rappresentano il Piemonte a pieno. No sono artefatti. Non sono una bomba al naso nonostante abbiano anche sentori complessi.Vediamoli i vini che ho assaggiato, partendo dai tre Barolo. Diversi, identitari, territoriali. Degustarli vuol dire viaggiare nei territori iconici delle Langhe e di Sua Maestà il Barolo.Partiamo dal top di gamma. Il Barolo DOCG Villero Riserva 2012. Siamo nel territorio di Castiglione Falletto dunque, suolo Elveziano. Nonostante i 12 anni di invecchiamento tra barrique (24 mesi), acciaio (12 mesi) e bottiglia (24 mesi prima della messa in commercio poi il resto) per colorazione e naso sembra ancora un giovanotto. Io l’ho trovato rubino con riflessi granata! Sentori complessi con praticamente tutto dentro. Ogni cosa che si studia nei corsi da Sommelier, qui c’è. Niente prevale e tutto si bilancia. C’è un sapiente equilibrio di note dolci e pungenti. Più si rotea il bicchiere e più si scopre qualcosa.
In bocca è sublime specialmente per l’elegante chiusura di bocca e per i frutti che tornano prepotenti nel finale ad addolcire il sorso quando i tannini, certo ammorbiditi, rimangono belli attivi. Un vino intrigante e misterioso che quando pensi di aver capito, stupisce con nuove sensazioni. Una vera droga. Se non posso dare 100 punti, ci manca davvero poco.Barolo Rocche dell’Annunziata 2017. Cambia il territorio e cambiano le caratteristiche. Da Castiglione ci si sposta nelle vigne di La Morra su suolo Tortoniano. L’affinamento è di 24 mesi in legno dividendo a metà le masse per sfruttare barrique e botte grande. Poi 12 mesi in acciaio e 6 in bottiglia. Il legno si fa sentire un pò di più ma manco tanto. La pulizia di questo vino è la medesima di tutti i vini della casa. C’è una finezza e trasparenza che abbagliano. I sentori si fanno più polposi, vivi, intensi, caldi. Prevale una bella balsamicità alcolica. La frutta è matura ed è data ai fiori il compito di mantenere freschezza e pungenza. Il sottobosco dona una piacevole nota verde. Le spezie sono rotonde, mai dolci. Se non per una punta che rende ammaliante i sentori. Il pellame è liscio; il tabacco trinciato.
Il sorso appare decisamente caldo, secco, molto avvolgente e con un perfetto bilanciamento che lascia in bocca una sensazione meravigliosa. Un vino armonioso, sinuoso, caldo che riesce comunque a mantenere inalterata la sua fresca austerità incontrando le esigenze di necessita finezza a quelli che amano la morbidezza.Barolo Selezione Cascina Rocca 2018. Rimanendo nelle vigne de La Morra questo vino affina 24 mesi in botti grandi per poi passare ulteriori 12 mesi in acciaio. Incredibile come qui, rispetto al precedente, cambi tutto presentandosi come un Barolo pronto e fresco. Uno di quei vini che aprirei per la merenda sinoira. Certo, una merenda di classe. La caratteristica è la finezza dei sentori molto lineari e distinti. Non particolarmente complessi ma ben definiti. I frutti sono più di bosco con la parte acidula a prevalere. Quasi un pomodoro che si unisce alla cannella e al pellame. Il sottobosco ben definito. I fiori rossi omni presenti.
Il sorso è pieno con i tannini presenti e maturi ancorché non aggressivi. Grande avvolgenza, grande freschezza e un, consueto direi, ottimo bilanciamento. Un fine retrogusto di frutto che pian piano comincia a prendere forma grazie anche ad una lunga persistenza. Piacevolmente morbido, piacevolmente fresco. Nulla prevale e tutto si bilancia con una bocca che chiude in maniera elegante.Barbera d’Alba Superiore 2019. Prodotto sempre a La Morra ha un lungo affinamento per essere una Barbera. 18 mesi in barrique, 12 in acciaio, 6 in bottiglia. I sentori sono i frutta cotta. Evidente e molto la ciliegia marasca e l’accenno di arancia. Evidente il sottobosco che sa quasi di muschio. Evidente la nota minerale che in maniera sfacciata tende ad essere preponderante. Evidenti i fiori rossi. Evidenti le note speziate di noce moscata, cardamomo, pepe e chiodi di garofano. Evidenti il pellame, il tabacco e la nota di cioccolata. Per essere un Barbera, è complesso e quasi aristocratico. In bocca torna ad essere il Barbera della tradizione che strizza comunque sempre l’occhio alla eleganza. Secco, fresco e caldo con i tannini che si sono già ammorbiditi conservando comunque un che di vegetale. Come se potessero ancora esprimersi nel tempo. Freschezza e basso alcol percepito sono i punti di forza. Bocca che chiude in maniera precisa, persistenza non particolarmente lunga, ottimo equilibrio. Questo Barbera non è, ed è bello che sia così, un vino ampio. Anzi, è un rosso quasi verticale, morbido e pungente in bocca, per certi versi civettuolo così da renderlo adatto a far avvicinare a questo fantastico vitigno, persone che cercano una maggiore rotondità. Ovviamente non piemontesi.Barbera d’Alba 2019 dalle vigne del comune di Barolo. 12 mesi in botti grandi e un breve passaggio in acciaio per donare a questo Barbera l’aspetto di un vero Barbera. Brillante già nel calice. Questo per la merenda, dei piemontesi, va benissimo.Langhe Nebbiolo 2020. Sempre a Barolo e stesso affinamento della Barbera per un vino che rispetto a quest’ultimo è più pungente. D’altronde se si vuole addomesticare il Nebbiolo occorre aspettarlo. Ma si otterrebbe un Barolo. Convincente perché quasi un vino, nobile, da tutti i giorni.Dolcetto d’Alba 2022. Un mix di Barolo e La Morra che non può e non deve fare legno per preservare la peculiarità di un vino da bere subito e a tutto pasto. Gli odori di frutta fresca inebriano e invogliano a berlo. Vellutato in bocca pur mantenendo una bella freschezza. Occhio solo al finale che può essere leggermente amarognolo. Ma buono proprio per questo.Magari quelli da 100 punti ne bevi un bicchiere poi non so. Queste bottiglie si finiscono. Non sono baroli impegnativiQui ritrovo tutta la filosofia piemontese. Quella che consente di sedersi intorno ad un tavolo a fare la merenda sinoira: mangiare un pò di salame e bere un bicchiere di vino. In compagnia. Oddio, un bicchiere proprio no. Magari qualcuno di più. Ma non nel calice. Proprio nel bicchiere. Aprire una bottiglia per finirla ma solo se sei in compagnia. Perché questa è la vera essenza del vino: bere in compagnia. In Piemonte si fa così. A Cascina Rocca si fa così. Il vino è fantastico, di grande livello, ma non lo si vuol dare a vedere. Non si vuol portare quello che è vino e condivisione ad un livello così alto da snaturarne l’essenza. In questo sta la forza di una famiglia. Anzi due. Mai come in questo caso, l’unione fa la forza. Ma solo grazie a intelligenza e lungimiranza.Ivan Vellucciivan.vellucci@winetalesmagazine.comMi trovi su Instagram come @ivan_1969

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31 Mag 2024

Emiliano Fini. Semplicità ed umiltà

Non c’è vino senza ingegnoLa terra. Tutto nasce dalla terra. Tutto torna alla terra. Un ciclo chiuso. Un anello che si chiude da dove aveva iniziato.
Ognuno ha una sua origine. Ed è li che torna. Sempre e comunque. Non c’è nulla da fare. L’elemento dal quale si è nati, nel quale si è vissuta la fanciullezza, i primi passi, le prime esperienze. Li si torna. Prima o poi si torna.
Il mio probabilmente è il mare. Senza il mare, l’odore acre dello iodio, lo sciabordio delle onde, la sabbia sotto i piedi. Non saprei neanche il mio nome senza di questi elementi.
Per Emiliano, Emiliano Fini, è la terra. La terra acquistata da papà Anacleto che, figlio di contadini, aveva lasciato la sua origine per fare l’ingegnere. La terra. La terra. Come fai a rimanerne lontano. Non la deve solo coltivare. Non la deve usare come unico strumento di sopravvivenza. Ma perlomeno la deve avere. Per coltivarla. Per viverci.
Su quella terra Emiliano scorrazzava felice con la moto da trial. Guidava il trattore dello zio. Si divertiva.Era il mio giocattolone.Un giocattolone per un bambino. Un impegno per un adulto. Un rimanere attaccato a qualcosa per papà Anacleto. Dieci ettari, 7 dei quali vitati. Una casa. Quella per viverci anche continuando a fare la professione di ingegnere. Così papà Anacleto. Così Emiliano. Tale padre, tale figlio.
Papà Anacleto non poteva che conferirla l’uva. Difficile fare il contadino a tempo perso. Vanno bene i sogni ma poi la realtà è ben diversa.Mio nonno faceva vino. All’epoca si faceva in modo diverso. Era un alimento principalmente. Mio nonno era agricoltore. Mio padre Anacleto ingegnere anche lui con il pallino dell’azienda agricola. Nel 1988 abbiamo questo terreno nei pressi di Campoleone, nel comune di Aprilia, alla base dei castelli romani. Siamo per 200 metri nel comune di Aprilia. Terreni piroclastitici e pozzolana.Emiliano è ingegnere. Papà Anacleto è ingegnere. Lavorano insieme. Progettazione edilizia. Strutture.
Emiliano solo a vederlo ti fa una gran simpatia. Un sorriso innato, spontaneo e sornione che si espande su un viso dove non ci sono capelli a modificarne l’ovale. Lui sorride di felicità quando parla della sua avventura che è grande passione. Continua a sorridere quando versa il vino. Continua a sorridere quando parla di sua moglie Michela e dei suoi figli.
Capisci quanto un uomo possa essere completo con una famiglia, un lavoro e una passione. Che magari un giorno sarà anch’essa lavoro.Mi sono appassionato e avvicinato al mondo del vino perché partecipammo ad un corso, di quelli veloci da 8 lezioni con Marco Cum. Abbiamo iniziato ad andare in giro con lui nelle Langhe. Bellissimo. Siamo sempre andati da cantine di un certo livello. La mia prima cantina è stata Contermo, la seconda Mascarello Giuseppe. Mi sentivo raccontare….”Noi abbiamo il terreno vulcanico”. “Noi abbiamo l’influsso del mare”. “Qui c’era il mare”. Ma queste cose le abbiamo anche noi. Avevo sempre pensato che sì abbiamo una cantina, ma che non non avesse chissà quali potenzialità.Così è nel Lazio e così è sui colli Albani. In queste zone il vino si è sempre fatto. Per casa. Per venderlo sfuso o un tanto al kg, pardon, litro, agli osti di Roma, ai fraschette, alle taverne. Chi aveva ettari di viti, quelle che danno vino quant’abbondanza c’è, le vendeva alle cantine sociali o a quelle grandi. Tanto, di mettersi a produrre vini che nessuno avrebbe mai comprato in bottiglia, non era il caso. Terra di bianchi questa. Suoli di matrice vulcanica che si incontrano con quelle che erano le paludi. Fertili e minerali. Un giusto mix per avere vini sapidi e fini ma con poca la struttura. Anche perché di vitigni autoctoni, interessanti e identitari sì, ce ne sono pure, ma la loro fragilità o comunque la necessità di grandi produzioni, li hanno snaturati.
La Malvasia Puntinata ad esempio. Quella riconoscibile per la macchia sull’acino. Uva tanto meravigliosa quanto delicata. Così delicata che si preferiva sostituirla con quella di Candia. Tanto, sempre a litri doveva essere venduta.
O il Bellone, detto pure Cacchione. Vino in quantità ma solo se trattato come una uva di serie B.
Anche il Trebbiano qui trova le sue interpretazioni più popolari e di massa. Certo, nel Cannellino di Frascati ci stava pure bene ma vuoi mettere la differenza a chiamarlo Ugni Blanc o per fare l’Armagnac?Avevamo trovato qui, vecchie piante di Trebbiano toscano e Malvasia di Candia. Piante con circa 50 anni. C’erano 1.2 ettari di Merlot che serviva per la DOC Colli Albani. Nel 1992 piantammo 1.7 ettari di Chardonnay perché mamma insegnava francese e voleva qualcosa del genere. Dava pure ottima uva ma la mia intenzione è di non fare vini internazionali e infatti saranno i primi che salteranno.È nel 2017 che Emiliano si decide a vinificare. Timidamente, come è lui. Quasi in punta di piedi. Con timore reverenziale ma senza paura. Un timore dettato dall’essere completamente all’oscuro di tutte le pratiche vitivinicole. Nei campi ci aveva solo scorrazzato e il vino lo aveva visto fare. Certo, da ingegnere, e se sei ingegnere devi avere una certa predisposizione fin da piccolo, il perché delle cose te lo chiedi sempre. Ma farle….Beh farle è tutta un’altra storia.Iniziammo a frequentare Marco nel 2014 e nel 2017, proprio a casa di Marco mia moglie Michela mi dice “ma perché non imbottigliamo?” Ero un pò scettico perché avevamo già provato ad imbottigliare ma avevo dato delle uve bellissime ad una cantina sociale della zona e mi avevano ridato un vino di quelli con il punto interrogativo. Una usanza purtroppo abbastanza comune nella zona.Ci si mette poco a capire poi perché nessuno imbottigliava in queste zone.Marco mi presentò Damiano Ciolli con la moglie Letizia che è enologa. Sono venuti in azienda. Ho spiegato loro quello che volevo fare. Era giugno 2017. “Compra due serbatoi e li appoggiamo in cantina da me” così mi disse Damiano. Cotto e mangiato. compro due serbatoi e li porto ad Oleavano Romano in cantina. Il 2017 era stata una andata facile. Calda, con zero malattie. Mi dissero di raccogliere bene l’uva e di portare grappoli sani perché loro lavoravano solo uva sana. “O il vino viene male o devi ricorrere alla chimica ma noi non lo facciamo. Porta solo uve buone”. Porto allora solo uve perfette e loro mi dicono “Allora il vino è fatto”. Come è fatto? “Tre quarti della difficoltà sta nel portare le uve in cantina sane. Poi non devi sbagliare”. Loro il vino lo sano fa E quindi è cominciata così.Damiano Ciolli e la moglie Letizia sono quasi una istituzione in zona. Damiano è alla terza se non quarta generazione di viticoltori. Biodinamico manco a dirlo. Emiliano in ogni modo, ragionando da ingegnere e non da viticoltore, non riesce a capire come si possa fare il vino in maniera così facile. L’annata è stata buona e come inizio, gli è andata più che bene. Non credo si aspettasse qualcosa di così rapido e ben riuscito.Ha stupito in primis a me. Soprattutto la Malvasia che era un pò scorbutica. Aveva bisogno di tempo per esprimersi. Era pimpante, molto sapida. Mi piaceva. Per ignoranza mia mia, non ero molto ferrato sui vini del Lazio come Grechetto e Malvasia Puntinata. Una volta assaggiata ho detto “però però”. Piacevano a me per prima. Adesso sono un fan dei miei vini. Abbiamo continuato.Emiliano è un ingegnere che fa strutture ma soprattutto è un ingegnere ovvero uno di quelli che deve fare le cose da se, dall’inizio alla fine. Da Damiano e Letizia rimane giusto il tempo di farsi la cantina investendo oculatamente e riuscendo a prendere qualche finanziamento.Ci ho messo un pò di tempo per richiesta di finanziamento, bandi come ocm….prima che te li approvano. Nel 2022 ho prodotto 10.500 bottiglie. Nel 2023 mi sono abbastanza salvato anche se siamo in regime biologico. Siamo stati tempestivi anche se la perdita è stata del 30% di perdita.L’attenzione al biologico della famiglia Fini c’è sempre stata. Prima con i kiwi che in queste terre hanno rappresentato l’Eldorado, poi, senza soluzione di continuità, con la vigna.La terra è il giardino di casa dei miei dunque la trattiamo bene. Non abbiamo mai usato prodotti impattanti. Dagli anni 90 quando c’era la 2078 siamo stati in regime biologico. Per me è la stessa cosa. Nelle prime due annate non abbiamo usato lieviti selezionati. Poi abbiamo cominciato ad utilizzare accortezze in vigna e solo sovescio così sono partite con le fermentazioni spontanee. Dal 2022 l’azienda è certificata biologico. Ho scoperto, per ignoranza mia, che per mettere il marchio biologico deve essere certificata la cantina. Ho perso un anno così che dal 2023 anche le bottiglie recheranno il marchio.Lieviti naturali nell’ottica di fare un vino il più naturale possibile. Non per moda ma per giusta conclusione di un ciclo di grande attenzione in vigna. La maniera corretta di fare le cose per una piccola azienda che vuole rispettare la tradizione e i vitigni locali.La terza cantina che visitammo nelle Langhe fu Cavallotto. Faceva la lotta integrata in vigna da tanto tempo. Mi ha sempre affascinato la cosa ma avevo paura delle fermentazioni spontanee. Prima erano in pochi e ti davano del pazzo. Anche oggi mi danno del pazzo. Avevo un pò di timore ma Letizia mi confortava. Faccio vino naturale come conseguenza non come fine. Un lavoro che deve essere fatto bene dall’inizio alla fine. Il vino naturale deve essere buono ma senza difetti. Anche perché se ci sono i difetti, può far male più della chimica.Il pragmatismo di un ingegnere insieme all’amore e alla passione di una persona che ha ritrovato nella terra non una valvola di sfogo, ma quasi un elemento indispensabile della propria esistenza. Anche perché Emiliano è consapevole di avere altro che gli da da vivere. Non biasima chi agisce in maniera diversa. Lui sa che si può permettere di non vivere senza compromessi.Avevo pure comprato due libri di enologia ma ho rinunciato subito perché tutta chimica. Troppo complicato. Applico il rigore ingegneristico e ottengo uve sane. Cerco di capire il perché delle cose.Ecco l’Emiliano ingegnere. C’è poco da fare. Non ho mai trovato un ingegnere in grado di snaturare la sua essenza. Lui ascolta, impara. Poi agisce. Anche se per sua stessa ammissione c’è poco da fare in vigna e in cantina. Un pò dissacrando e smentendo coloro che usano la chimica per difendersi. È anche vero che qui i terreni sono particolarmente facili e le condizioni atmosferiche non sono mai proibitive.Come ingegnere sono progettista strutturale. Cemento armato, pratiche edilizie, consulenze, computi metrici. Mi porto da questo lavoro l’attenzione, la prevenzione e il saper di non poter sbagliare. In cantina faccio tutto perché Letizia e Damiano non vengono più. Seguo le loro indicazioni che popi sono quattro cose: rimontaggio per muovere le fecce e finche non puzzano le tieni li. Poi affinamento. La parte enologica è cosi semplice che non stiamo a fare cose strane. Solo nel 2018, annata fredda, abbiamo fatto con il Grechetto quello che facciamo con la Malvasia ovvero un contatto tra buccia e mosto dopo la diraspatura e prima della pressatura e fermentazione per prendere estratto dalle bucce. Nelle annate normali non lo puoi fare altrimenti sarebbe troppo amaro. Non facciamo niente di più.Insomma una vinificazione semplice. Poche cose con la voglia di capire il più possibile. Nel caso c’è sempre Letizia alla quale fare domande. Senza vergognarsi. Perché Emiliano si sente sempre un neofita. Ed è questa la sua vera forza. Semplicità ed umiltà.In vigna ho fatto il corso di potatura e mi piace molto. Sono un paio di anni che non riesco per mancanza di tempo. Ci tornerò quando i bambini cresceranno. C’è una lotta culturale con le persone che lavorano. Ti prendono per pazzo. Avevamo una fresa e gliela ho fatta buttare. C’è sempre stata la mentalità che il terreno non lavorato ovvero incolto non va bene ma è il contrario.
Non facciamo cultura intensiva ma inerbimento e sovescio e non abbiamo bisogno di concimare.Mamma Giorgia a dare una mano con il tempo inizia a farsi sentire. Papà Anacleto che a 79 anni continua a fare l’ingegnere anche se stufo di correre dietro la burocrazia. Sta più in azienda e gli piace più la parte amministrativa.In vigna non c’è mai stato anche perché mi dice che lui ha le sue idee date dal padre e non vuole andare in contrasto.Per i vini, Emiliano è un bianchista convinto. Convinzione che deriva anche dal pragmatismo di una persona che sa cosa si può ricavare dal suo territorio. Vocato ai bianchi autoctoni e impossibilitato a generare rossi importanti.Negli anni 90 avevamo piantato i kiwi. Nel 2006 abbiamo deciso di piantare vigna ma non c’era idea di vinificare. L’agronomo ci suggerì Malvasia Puntinata e Grechetto. Mi sono convinto che noi abbiamo cose importanti che nessun altro al mondo ha. Tra i miei vitigni ho scelto di fare quelli autoctoni. Ci piaceva il Grechetto anche logisticamente vicino alla Malvasia così che si poteva controllare meglio. Nella mia prima parte di approccio al vino erano solo vini rossi. I bianchi che mi facevano impazzire erano pochi. l rossi qui verrebbero poco strutturati e poi lo fanno bene poco lontano da qui. Le espressioni di rossi locali mi hanno fatto strappare i capelli che non ho.Due le etichette, di bianchi ovviamente, prodotte. Cleto, dedicato a papà Anacleto per il Grechetto, Lavente perla Malvasia. Due vini identitari, pieni e caldi. Minerali e goduriosi. Non tante bottiglie perché Emiliano non vuole crescere tanto. Arrivare alle 25.000 bottiglie prima, 40.000 poi. Da ingegnere capisce che questi sono i potenziali della terra e della cantina. Perché rinunciarci? Perché non puntarci?Mi è capitato di bere dei vini importanti come il Don Chisciotte di Zampaglione e mi è piaciuto. Mi piacerebbe fare con il Trebbiano un vino macerato. Non perché vanno di moda ma ne ho visto le potenzialità.Lavente è la Malvasia, Puntinata. Non quella di Candia. L’ho aperto e ne ho apprezzato il colore semplice come quello del sole la mattina, la trasparenza di un mare cristallino (ma quello del Lazio dove la sabbia restituisce colori chiaro/scuri). Sentori anch’essi semplici ma rotondi ed avvolgenti. La pesca, i frutti tropicali, i fiori di camomilla, il biancospino. Pochi ma buoni si direbbe. Sentori che diventano caldi abbracci roteando il calice. Avviluppanti, morbidi, suadenti. Sentori che si completano con elementi di freschezza: agrumi, salvia, mentuccia, maggiorana e iodio a bilanciare perfettamente quella morbidezza.
Quando il vino arriva in bocca, la sensazione di piacere continua. Un liquido fresco e morbido, caldo e sapido che ammalia e stupisce. Una insolita nota di sottofondo attrae l’attenzione. Non è immediatamente comprensibile così da obbligarti ad un nuovo sorso. Poi la si mette a fuoco e appare una mela cotogna che diventa cotta così che il sorso diventa ampio e avvolgente per poi diventare verticale. Non puoi fare a meno di berlo ancora perché la sensazione di grazie della bocca è un richiamo irrinunciabile. Alla fine rimane il gusto impresso per molto tempo. Ma ne necessiti comunque ancoraCleto, papà Anacleto. Un Grechetto che sa di Grechetto ma con una inesorabile marcia in più. Sarà perché quando lo porto al naso, pur riconoscendo il Grechetto (quello buono e ben fatto) vengo stregato da sentori che non mi fanno bere subito. Anche se vorrei. Tanti fiori miscelati alla frutta. Sensazioni che inebriano per via degli agrumi mischiati alla pesca e alla banana ma rinfrescati dalla menta. Sembra un co*cktail inusuale. La cera d’api che sa di ambrato spiazza. La salinità quasi salmastra adesso si unisce a mela e pera, al frutto tropicale e alle erbette di campo generando un non so che di piacevole. Ho la sensazione di essere un’ape che svolazza nei campi.
Il sorso è da vero Grechetto. Non banale. Non scontato. Deciso, fresco, armonico, bilanciato. Un calore percepito bene e una sapidità che lascia armoniosamente inalterati tutti i sapori. Morbidezze e durezze si uniscono donando alla bocca una incredibile piacevolezza. Non fruttato, non civettuolo. Persistenza anche lunga. Potrei berlo anche da solo ma in un aperitivo sono certo che conquisterà.La progettualità è tutta nella mente di Emiliano. Aumentare le quantità con il Grechetto e la Malvasia. Espiantare lo Chardonnay. Sfruttare a pieno la cantina. Anche se lui dice che per ora non è un piano, nella mente di un ingegnere c’è sempre un piano.La mia progettualità non è ampia e io sono soddisfatto di quello che faccio. Mio suocero i primi tempi diceva: “c’hai la azienda agricola ad Aprila…li fanno i vinacci schifosi. C’hanno le uve schifose”. Adesso si sta ricredendo. Queste sono le piccole soddisfazione che mi piacciono. Sono soddisfatto già cosi.Ride Emiliano. Ride di gusto. Di quella felicità che immagino avesse quando a 11 anni scorrazzava per le terre di papà Anacleto. Il giardino di casa. La felicità di un ritorno alla terra che forse ancora non ha percepito in pieno. Ma sta montando. Piano piano. Ha solo bisogno di un pò di convinzione in più. Di qualche riconoscimento o di qualcuno che gli dica che sta facendo veramente bene.Emiliano, un puro e un entusiasta. Una persona che crede nel suo lavoro. Pragmatico. Solare. Vuol dar lustro alla sua terra. Con semplicità. Senza artefazioni. Come i suoi vini, meravigliose espressioni del territorio. Vai Emiliano, vai!

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24 Mag 2024

Castello di Razzano. Il fascino nel Monferrato

La Gioconda di Leonardo è custodita al Louvre di Parigi. È in una grandissima sala, protetta dietro una spessa teca di vetro. Per vederla occorre fare la fila. Piccolo è il quadro, grande la ressa.Un quadro meraviglioso, un capolavoro senza tempo. Il sorriso di Monna Lisa è enigmatico (avete mai provato a dividere in due il quadro e ad osservare solo il lato destro o sinistro?). Lo sguardo ti segue da qualunque angolazione guardi il dipinto. I colori non sono vivi ma attraggono. Un quadro nel quale Leonardo ha posto attenzione maniacale. Insomma, una opera che merita senz’altro di essere vista e studiata. Eppure, una visita al Louvre non può e non deve essere rivolta solo a questa opera. Ve ne sono di stupende, a partire da quello posto nella medesima sala: Le nozze di Cana di Paolo Caliari detto il Veronese.Quando si parla di Piemonte del vino, si parla di Langhe, meraviglioso e unico territorio con sua Maestà il Barolo a dominare la scena. Un territorio così esclusivo che rischia di mettere in ombra le altre perle della regione. Come ad esempio il Monferrato, un incredibile territorio incastonato nelle province di Asti ed Alessandria, dal nord del Pò fino quasi a ridosso dell’Appennino ligure.Dolci colline, vigneti, borghi, castelli che, al pari delle Langhe, sono Patrimonio dell’Unesco.Alfiano Natta è un piccolo (poco meno di 700 abitanti) paese dell’Monferrato Casalese. Ancorché faccia parte della provincia di Alessandria è più vicino ad Asti. Siamo nell’Alto Monferrato dove Grignolino, Barbera, Dolcetto, Arneis, Ruchè, Freisa, Bonarda, Cortese sono solo alcuni dei vini che si producono. Un aereale molto vasto che gode di 4 DOCG (Barbera d’Asti, Ruchè di Castagnole Monferrato, Nizza, Terre d’Alfieri) e 9 DOC. La Barbera è trainante per tutti gli altri vini di queste zone. Un vitigno e un vino che caratterizza il Piemonte ancor prima del Nebbiolo. Il vino della gente, fresco e versatile.Qui si respira il vero Piemonte che fonde l’aristocrazia con il lavoro dei contadini, l’austerità Sabauda dei militari con la voglia delle persone del luogo, mai esuberante, di godersi la vita. Il vino al centro di una cultura fondata sul connubio cibo-vino.È il vero Piemonte, non artefatto dalla necessità di mutarsi per piacere a qualcuno. Un pò chiuso tra le colline e fuori, ancora per poco, dalle rotte dei turisti e degli eno turisti.Ernesto Olearo, agli inizi del secolo scorso, investe nelle terre e nella cantina per produrre vino. Piccole dimensioni, quasi ad uso familiare. Poco vino prodotto nella Tenuta Cà di Corte ovvero Casa Vinicola Olearo. Con Ernesto e la moglie Clementina Razzano, inizia l’avventura enoica di una famiglia.La nostra è una azienda familiare alla quarta generazione di produttori di vino. Adesso siamo due fratelli. Io mi occupo più della parte amministrativa e ospitalità. Federico della vinificazione e della produzione in quanto enologo.Incontro Riccardo Olearo che con suo fratello Federico, dal 2006 costituiscono la quarta generazione degli Olearo.Dopo Ernesto arriva Eugenio a fare crescere l’azienda.Mio nonno era un grande commerciante che comprava partite di uva e vino da tutta italia vendendoli sfusi o in damigiane.Nonno Genio. Un diminutivo certo ma anche un appellativo. Negli anni del boom economico non sta fermo. È lungimirante. Vede lontano. Sa che quello è un momento di grande espansione. Occorre solo capire dove andare senza aver paura dei soldi. Tanto ci sono le banche.Un giorno andò in banca. Non aveva grandi disponibilità economiche. Va dal direttore e gli chiede: di quanto è il conto oggi? Siamo (sparo una cifra a caso) ad un miliardo e mezzo in passivo. Lui rispose: Allora abbiamo troppi soldi. Dobbiamo spenderli. Era un carro armato. Doveva vedere cisterne piene in cantina.Grandi persone queste. Grandi imprenditori dotati di quel fiuto che una volta trovavi in persone con il sacro fuoco che ardeva dentro. Volevano emergere. Certo, il business andava bene ma gli investimenti, quelli giusti, erano altra cosa. Riuscire a vedere l’evoluzione che verrà, è per pochi. Eletti, dotati, scaltri, intraprendenti. Ce ne fossero ancora oggi.Poche volte capita che ad un grande padre succeda un grande figlio. Forse gli Olearo sono fortunati o bravi nel trasmettere il dna giusto. Fatto sta che ad Eugenio succede Augusto che da enologo modifica completamente (e ci vuole coraggio con un padre come Eugenio!) la filosofia aziendale iniziando a produrre, in proprio, il vino. Acquisisce nuove terre piantando nuovi vigneti fino a raggiungere gli attuali 30 ettari. Da commercianti a produttori. Un passo non proprio breve e facile ma utile per costituire l’azienda attuale Castello di Razzano.Nel 2006 entriamo in azienda io e mio fratello portando avanti la filosofia di papà attualizzandola. Oltre alla parte di cantina infatti abbiamo aggiunto la parte di ospitalità. La cantina è suddivisa in tre diverse Tenute. Quella principale, il Castello di Razzano, è stata adibita a ospitalità con 13 camere e ristorazione. Oltre alla cantina dove facciamo l’invecchiamento dei vini. La nostra rimane una piccola attività familiare e non puntiamo ad ingrandirci tanto. Si cerca di curare sempre più il prodotto e la sua qualità. Non vogliamo ampliare vigneti e produzione. Il nostro mercato è, per scelta, a clienti privati. Cerchiamo di andare a dare il nostro vino direttamente a cliente finale.Produciamo vino e olio extra vergine. Questo è nato un pò per follia e passione. Alla fine degli anni 90 papà ha piantato gli olivi e oggi abbiamo circa 1200 piante in produzione, 300 che entreranno in produzione nei prossimi anni. Abbiamo installato un frantoio in azienda. Facciamo tutto internamente noi. Mi sa che pure con Riccardo e Federico gli Olearo sono riusciti a trasmettere il dna giusto….Al Castello di Razzano si respira un’aria aristocratica. Un Castello, una tenuta di charme del 1600 acquistata dal Genio nel 1969 dalla famiglia Caligaris.La tenuta è una casa forte con una torre. Mio nonno aveva acquistato la tenuta dall’avvocato Valentino Caligaris, avvocato della Repubblica Italiana. Una famiglia molto importante. Era la tenuta di campagna della famiglia e veniva usata da loro in estate. Fino alla Seconda Guerra Mondiale quando la famiglia si rifugiò qui per evitare le rappresaglie del Duce che aveva chiesto a Valentino Caligaris di occuparsi della Repubblica di Salò.Altre due tenute costituiscono l’azienda. Cà di Corte, quella di nonno Ernesto, dove si vinifica; Campasso per stoccaggio e affinamento delle bollicine metodo classico. Tutte nel comune di Alfiano Natta con i vigneti intorno.Riccardo e Federico contribuiscono ad un ulteriore, saggio, passo per l’azienda: arrivare a vendere quasi il 70% delle 100.000 bottiglie prodotte, direttamente in cantina.Papà lavorava con distributori e vendita al dettaglio. Noi abbiamo stravolto il concetto portando il consumatore in azienda. Degustazioni e visite in cantina così che di ogni bottiglia possa esserne narrata la storia.Qui in effetti si respira la storia del nostro paese e di una famiglia. Non è un racconto però. Non c’è un disco che parla o una persona che recita la sua poesia, fa il suo compitino. Qui c’è una famiglia che si racconta. Ci mette non solo la faccia ma anche la propria anima.La nostra è una famiglia e il rapporto con il cliente è quasi a livello familiare. C’è un rapporto umano. Una scelta ponderata.L’ospitalità qui è sacra. Il vino, il cibo, i luoghi. Dietro ogni cosa, dietro una etichetta, ci sono delle persone. Una identità, una storia. Quello che c’è qui, c’è per passione e amore.Ci siamo nati. Ci viviamo. Vogliamo continuare a stare qui. I miei genitori non ci hanno mai ne chiesto ne imposto di rimanere in azienda. È stato naturale. Hanno visto in noi una passione che c’era già da bambini. A quattro anni andavo insieme ai cantinieri ad imbottigliare. Per me questo mondo è quello che voglio fare. Non immagino di poter fare altro.Non c’è solo un enologo qui. Ce ne sono due: papà Augusto e Federico. Non so dire se sia una fortuna o una sfortuna (per le eventuali liti!) ma a giudicare dai vini, è una fortuna. Il confronto serve!Tante etichette per andare incontro alle varie esigenze del mercato. Non può mancare la Barbera nelle versioni Barbera d’Asti e Barbera d’Asti Superiore.La Barbera è quella che vogliono i nostri clienti. Un gusto che incontra quelli di tanti. È in cinque tipologie proprio per andare ad accontentare gusti diversi. Acciaio, botte di rovere da venti ettolitri, affinamento in barrique di diversa tostatura e passaggio con altre tre versioni.Nella prima versione, La Leona, è la Barbera che più Barbera non si può. Classicamente fresca, fruttata, di pronta beva. Ovviamente vinificata in acciaio.Quattro le versioni Superiore.Campasso (riposa 3 anni in botti di rovere da 20 ettolitri). Mantiene la freschezza della Barbera con un pizzico di complessità e rotondità in più. I sentori infatti parlano di una Barbera pronta e immediata: una frutta non ancora matura, una intensa parte floreale che si esalta per il meraviglioso bouquet di fiori rossi freschi. Il passaggio in botte ha riesco evidenti ma non eccessive le spezie e le tostature: tabacco e cacao si sentono senza stressare. Così come la vaniglia, il pepe e la cannella. Infine la nota di goudron. Ne deriva un naso interessante senza esser particolarmente complesso.
Il sorso è caldo per via dei 15 gradi. La meraviglia sono i tannini non aggressivi ancorché vivi e presenti e tali da rendere il vino determinato e fresco. Un perfetto bilanciamento per una chiusura di bocca anch’essa perfetta. È davvero meraviglioso come chiude la bocca e come la persistenza, non particolarmente lunga renda questo vino decisamente bevibile. Il retrogusto piacevolmente fruttato, ma di frutta fresca nella quale la vaniglia viene fuori insieme al sapore che mi ricorda l’odore di goudron, fanno di questo vino una vera, piacevole, scoperta (ho assaggiato la versione 2020).Beneficio. L’uso di barrique a diversa tostatura e passaggio consentono l’ingresso, non aggressivo e non invasivo, di spezie e note fruttate più mature. 15 mesi vanno bene.Eugenea ha sempre 15 mesi di barrique ma, in questo caso, tostature, spezie e rotondità, sono più evidenti.Valentino Caligaris infine è il vino con il maggior corpo e la maggior presenza di spezie. Le barrique nuove qui fanno il loro egregio lavoro per una alta espressione della Barbera. La frutta al naso è matura. Nera e matura. Ciliegia e mora spiccano insieme ad una nota erbacea che impreziosisce il naso. Sembra di essere in un rovo di more! Parecchie le note speziate e di tostature. Spezie di cardamomo, vaniglia, noce moscata, pepe, liquirizia. Le tostature del tabacco, del cacao, del pellame. Roteando il bicchiere è come se quel cespuglio fosse stato reciso per sigillarlo nella ceralacca di un sacchetto di gomma. Siamo ad una bella complessità con il plus dell’etereo.
Il sorso non si può che definirlo meraviglioso, ricco, pieno. Una Barbera perfettamente bilanciata che pur mantenendo la freschezza ammalia per morbidezza e avvolgenza così che la bocca rimane in un vero stato di grazia. C’è una sorta di marmellata di visciole che riempie e aggrazia pur essendo decisa. I tannini sono eleganti tanto da danzare silenziosi in bocca. Uno dei migliori Barbera io abbia mai bevuto che vorrei bere ancora tra qualche anno per capirne l’evoluzione (ho assaggiato il 2017)Due le interpretazioni di Nebbiolo.Serra del bosco, Monferrato Nebbiolo DOC. Solo acciaio per un vino fresco ed equilibrato ancorché quasi vegetale sul finale.Nero di Razzano, il Monferrato Nebbiolo Superiore DOC. Tre anni di barrique per un vino decisamente interessante. Uno di quei vini che si ricordano. Devo dire che difficilmente si trovano vini da Nebbiolo che escono fuori dal canone tradizionale che sa di austerità. Austero come solo un Barolo, il Re del Piemonte (forse d’Italia) può essere. In questo (versione 2020), ho trovato un vino leggiadro ancorché corposo dotato di pienezza e delizia. Mi ha entusiasmato già dal colore granata e dai sentori a matrice floreale e di frutta secca (datteri e fichi). Il resto della frutta appare polposa, ricca, piena. La cannella e la vaniglia sono insoliti per un Nebbiolo. Qui invece ammorbidiscono, ammaliano, stuzzicano. Così come la cioccolata, intensa, morbida e la liquirizia. Affascinante il goudron che è il filrouge dei vini rossi del Castello.
Anche in bocca è evidente la nota di continuità con gli altri vini. Tannini levigati, eleganti morbidi. I 15 gradi nona i fanno sentire per il grado alcolico quanto per la morbidezza. Il bilanciamento si muove protendendo verso le morbidezze Molto lunga la persistenza e la chiusura di bocca, impreziosita dalla frutta che si unisce a vaniglia e cannella, chiude in una sorta di stato di grazia. Avvolgente, ammaliante quasi civettuolo tanto che potrei berlo anche con un dolce. Da ribere tra qualche anno per vedere quanto si è ammorbidito ancora (ho assaggiato il 2020).Poi il Ruchè DOCG Ruckè, bellissima interpretazione di un vino che amo. Pieno, ricco, unico. Mi ha intrigato. Mi ha stupito. Senza se e senza ma.Abbiamo del Merlot in purezza e un taglio bordolese. Di famiglia siamo molto appassionati di merlot e taglio bordolese. Li abbiamo fatti più per noi anche se poi sono molto richieste.Il taglio bordolese è il Pian dei Tigli (blend di Cabernet, Croatina e Merlot) con 5 anni di affinamento in barrique; c*ntrà, Merlot 100% con tre anni di barrique. Da sette otto anni produciamo spumante metodo classico. Era molto richiesto. Continuano a chiamarlo prosecco gli stranieri. È una battaglia persa.Due metodo classico da Pinot Nero in purezza con 12 mesi sui lieviti: Lunadoro rosè, rosato; Lunadoro blanc de noir. Poi Chardonnay e Pinot Nero con 36 mesi sui lievi per Privilegio.Infine i bianchi.Sanspirit, Sauvignon blanc affinato in acciaio. Semplice e deciso.Costa del Sole, Chardonnay. Preciso, uno Chardonnay che fa il suo mestiere.Desiderio, la versione francese del Sauvignon realizzato con affinamento in legno di acacia per 8 mesi. Sa di miele di acacia!Non poteva mancare un rosato, Bellaria, da Pinot Nero. Semplice, razionale, giusto.Colpisce il vedere così tanti vini con etichette tutte diverse. Non ce ne è una uguale!Le etichette sono diverse una dall’altra. Fa parte un pò della vecchia generazione. Mio papà ha fatto le etichette che sono dei quadri di un artista locale. Giancarlo Ferraris. Ha disegnato etichette anche per altri produttori. È un discorso che stiamo affrontando. Sotto un punto di vista commerciale sappiamo che è una strategia sbagliata.Un artista del territorio che offre la sua arte alle etichette del vino. Per una azienda che vende gran parte delle propri bottiglie ai visitatori, ci sta. Ci starebbe meno per la distribuzione. Riccardo e Federico lo sanno. Così come sanno che sarà dura far retrocedere papà Augusto. Ma non dubito che è solo questione di tempo. Nemmeno poi così tanto.In fondo, siamo alla quarta generazione e di cose ne sono cambiate in questi oltre cento anni di vita dell’azienda. Cambierà pure questa. Con il giusto tempo piemontese. La giusta calma piemontese. La giusta austerità piemontese.Nonno Genio avrebbe voluto vedere i numeri, le quantità, il dinamismo. Forse andava bene per quei tempi, non per oggi. Chissà, forse vedendo questa realtà come è diventata oggi, storcerebbe il naso per poi però meravigliarsi subito dopo per il fascino che il Castello di Razzano oggi ha acquisito. Che prima non aveva.Fascino in cambio di volume. La scelta giusta per contribuire allo sviluppo di uno straordinario territorio. La scelta che fa del Castello di Razzano un punto di riferimento per il Monferrato.Ivan Vellucciivan.vellucci@winetalesmagazine.comMi trovi su Instagram come @ivan_1969

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Komjanc Alessio. La famiglia. Družina (2024)

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